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mercoledì 2 novembre 2022

Recensione "Le ricette della signora Tokue" - Durian Sukegawa

 




Titolo: Le ricette della signora Tokue

Autore: Durian Sukegawa

Editore: Einaudi

Genere: Narrativa contemporanea








Sentaro è un uomo di mezza età, ombroso e solitario. Pasticciere senza vocazione, è costretto a lavorare da Doraharu, una piccola bottega di dolciumi nei sobborghi di Tokyo, per ripagare un debito contratto anni prima con il proprietario. Da mattina a sera Sentaro confeziona dorayaki - dolci tipici giapponesi a base di pandispagna e an, una confettura di fagioli azuki - e li serve a una clientela modesta ma fedele, composta principalmente da studentesse chiassose che si ritrovano lì dopo la scuola. Da loro si discosta Wakana, un'adolescente introversa, vittima di un contesto familiare complicato. Il pasticciere infelice lavora solo il minimo indispensabile: appena può abbassa la saracinesca e affoga i suoi dispiaceri nel sakè, contando i giorni che lo separano dal momento in cui salderà il suo debito e riacquisterà la libertà. Finché all'improvviso tutto cambia: sotto il ciliegio in fiore davanti a Doraharu compare un'anziana signora dai capelli bianchi e dalle mani nodose e deformi. La settantaseienne Tokue si offre come aiuto pasticciera a fronte di una paga ridicola. Inizialmente riluttante, Sentaro si convince ad assumerla dopo aver assaggiato la sua confettura an. Sublime. Niente a che vedere con il preparato industriale che ha sempre utilizzato. Nel giro di poco tempo, le vendite raddoppiano e Doraharu vive la stagione più gloriosa che Sentaro ricordi. Ma qual è la ricetta segreta della signora Tokue? Con amorevole perseveranza, l'anziana signora insegna a Sentaro i lenti e minuziosi passaggi grazie ai quali si compie la magià: «Si tratta di osservare bene l'aspetto degli azuki. Di aprirsi a ciò che hanno da dirci. Significa, per esempio, immaginare i giorni di pioggia e i giorni di sole che hanno vissuto. Ascoltare la storia del loro viaggio, dei venti che li hanno portati fino a noi». Come madeleine proustiane, i dolcetti giapponesi diventano un pretesto per i viaggi interiori di Sentaro e Tokue, fra i quali si instaura un legame profondo che lascia emergere segreti ben più nascosti e ferite insanabili. Con l'autunno, però, un'ombra cala sulla piccola bottega sotto al ciliegio: quando il segreto di Tokue viene alla luce, la clientela del negozio si dirada e la donna, costretta a misurarsi di nuovo con il pregiudizio e l'ostracismo sociale che l'ha perseguitata per tutta la vita, impartirà a Sentaro e Wakana la lezione più preziosa di tutte.


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Buongiorno lettori,

Oggi vi parlo di un libro delicato ma tanto profondo che ho letto con la mia amica di letture Emanuela di Instagram @readers_del_mondo. Sto parlando del libro dell’autore giapponese Durian Sukegawa “Le ricette della signora Tokue” edito Einaudi e di cui hanno girato il film che vedrò sicuramente.


Sentero è il protagonista di questa storia. 

Uomo di mezza età che lavora in un chiosco di dorayaki, tradizionali dolci giapponesi, per pagare il debito che ha con il proprietario. 


Quando l’anziana signora Tokue si propone di aiutarlo nella preparazione dei dorayaki, Sentero è prima indispettito da questa richiesta, poi dopo aver assaggiato i dorayaki dell'anziana signora se ne innamora ma accetta comunque malvolentieri.


Questa sarà la svolta nella vita di Sentero perché presto scopre che il talento straordinario della signora Tokue nel preparare l’an (salsa di fagioli rossi) per i dorayaki incrementa le vendite ma non solo.

L’anziana signora ha un talento anche nel curare l’anima delle persone e ben presto anche Sentero ne beneficierà.


Una storia di amicizia, coraggio e voglia di riscatto. In queste pagine il lettore assapora l’aria giapponese insieme ai protagonisti, i profumi della pasticceria di Sentero e della signora Tokue e l’odore dei ciliegi della primavera giapponese.


Una storia che fa riflettere molto il lettore, che insegna a farsi forza nei momenti bui, a voltare pagina per non rimanere incastrati nel passato e a non perdere mai la speranza, anche quando sembra che tutto sia perduto.


Attraverso questa lettura inoltre ho appreso una parte della storia giapponese che non conoscevo e mi ha fatta riflettere molto. 

Parla infatti di una malattia che esclude le persone e le rinchiude in una clinica anche dopo essere guariti non permettendo di vedere più il mondo fuori, i propri familiari, di farsi una vita.


E questa lettura è anche questo, esclusione sociale, solitudine ma riscatto e coraggio e non posso che conisgliarvene la sua lettura, sono sicura che non ve ne pentirete!


❓E ora vi chiedo.. Avete letto questo libro?

Avete mai assaggiato i dorayaki e la salsa all’an?

Vi piacerebbe visitare il Giappone nel momento della fioritura dei ciliegi?

Vi leggo volentieri nei commenti💕




lunedì 5 settembre 2022

Recensione "La strada" - Cormac McCarthy

 




Titolo: La strada

Autore: Cormac McCarthy

Editore: Einaudi

Genere: Distopico







Un uomo e un bambino viaggiano attraverso le rovine di un mondo ridotto a cenere in direzione dell'oceano, dove forse i raggi raffreddati di un sole ormai livido cederanno un po' di tepore e qualche barlume di vita. Trascinano con sé sulla strada tutto ciò che nel nuovo equilibrio delle cose ha ancora valore: un carrello del supermercato con quel po' di cibo che riescono a rimediare, un telo di plastica per ripararsi dalla pioggia gelida e una pistola con cui difendersi dalle bande di predoni che battono le strade decisi a sopravvivere a ogni costo. E poi il bene più prezioso: se stessi e il loro reciproco amore.

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Buongiorno lettori,

Non pensavo che un libro del genere potesse farmi tanto male al cuore ma “La strada” di Cormac McCarthy edito Einaudi editore è proprio così che mi ha reso il mio povero cuoricino per tutta la durata della lettura e oltre.


Oltre perché ha lasciato in me una certa inquietudine.

Se avessi letto questo libro anni fa credo non mi avrebbe fatto lo stesso effetto.

Più vivo in questo pianeta e più convivo con persone che lo vogliono annientare.


Ed è proprio questo il mondo in cui McCarthy ci catapulta nel suo libro, un pianeta dilaniato, eroso, distrutto dall’uomo a cui rimane solo una cosa da fare.

Sopravvivere come meglio può e morire con questa consapevolezza.


Noi seguiamo le vicende di un uomo e un bambino che cercano di sopravvivere. Pochi averi tutti stipati in un carrello per la spesa che l’uomo spinge su quelle strade deserte. Pochissimo cibo, da cercare, conservare, proteggere.


Un bambino che non ha mai conosciuto mondo all’infuori di quello dilaniato se non attraverso i racconti del padre e che parla poco, si ammutolisce, vorrebbe salvare tutti.

Loro sono i buoni. Lui porta la fiamma, insieme al padre talvolta senza più speranza.

Ma quanto può una brava persona sopravvivere in un mondo eroso dalla brutalità?


Un mondo distopico non lontano da quello che potrebbe essere se l’essere umano continua a sfruttare così la terra, ecco perchè questo libro mi è entrato così nel cuore.

Non si sa quale disgrazia abbia colpito quel mondo buio, pieno di cenere, distrutto senza più città, persone, bontà ma non stento ad immaginarlo.


Chi mi segue sa quanto io tenga all’ambiente, quanto ami essere circondata dalla natura e questa visione di un mondo ucciso dalle mani dell’uomo non può che confermare tutti i miei timori: tutto ciò che l’essere umano tocca, distrugge!


La narrazione può sembrare ripetitiva, anche io all’inizio l’ho trovata pesante e monotona, ma poi mi sono chiesta cosa farei in un mondo del genere se non continuare costantemente a sopravvivere ripetendo le stesse attività di ogni giorno con gli stessi mille dubbi e paure, allora lì ho compreso e sono riuscita ad entrare completamente nella narrazione senza potermi staccare.


Sotto una lente di ingrandimento, McCarthy ci mostra la vita di due esseri umani che sopravvivono in un mondo post-apocalittico sapendo di non avere un futuro, conservando quel briciolo di speranza che li spinge a vivere, ma quella è vita? Non sarebbe più semplice piuttosto fare come la madre-moglie che si arrende all’evidenza e preferisce morire?


❓Voi amici lettori, come vi comportereste in un caso simile?

Riuscireste a cercare di vivere sopravvivendo nonostante siate al corrente che il vostro futuro è nero?

O preferireste soccombere all’evidenza e lasciarvi andare?

Vi leggo volentieri nei commenti💕




mercoledì 19 maggio 2021

Recensione "Accabadora" - Michela Murgia

 




Titolo: Accabadora

Autore: Michela Murgia

Editore: Einaudi

Genere: Narrativa contemporanea







Maria e Tzia Bonaria vivono come madre e figlia, ma la loro intesa ha il valore speciale delle cose che si sono scelte. La vecchia sarta ha visto Maria rubacchiare in un negozio, e siccome nessuno la guardava ha pensato di prenderla con sé, perché «le colpe, come le persone, iniziano a esistere se qualcuno se ne accorge». E adesso avrà molto da insegnare a quella bambina cocciuta e sola: come cucire le asole, come armarsi per le guerre che l'aspettano, come imparare l'umiltà di accogliere sia la vita sia la morte.

D'altra parte, «non c'è nessun vivo che arrivi al suo giorno senza aver avuto padri e madri a ogni angolo di strada».


Perché Maria sia finita a vivere in casa di Bonaria Urrai, è un mistero che a Soreni si fa fatica a comprendere. La vecchia e la bambina camminano per le strade del paese seguite da uno strascico di commenti malevoli, eppure è così semplice: Tzia Bonaria ha preso Maria con sé, la farà crescere e ne farà la sua erede, chiedendole in cambio la presenza e la cura per quando sarà lei ad averne bisogno.

Quarta figlia femmina di madre vedova, Maria è abituata a pensarsi, lei per prima, come «l'ultima». Per questo non finiscono di sorprenderla il rispetto e le attenzioni della vecchia sarta del paese, che le ha offerto una casa e un futuro, ma soprattutto la lascia vivere e non sembra desiderare niente al posto suo. «Tutt'a un tratto era come se fosse stato sempre così, anima e fill'e anima, un modo meno colpevole di essere madre e figlia».

Eppure c'è qualcosa in questa vecchia vestita di nero e nei suoi silenzi lunghi, c'è un'aura misteriosa che l'accompagna, insieme a quell'ombra di spavento che accende negli occhi di chi la incontra. Ci sono uscite notturne che Maria intercetta ma non capisce, e una sapienza quasi millenaria riguardo alle cose della vita e della morte.

Quello che tutti sanno e che Maria non immagina, è che Tzia Bonaria Urrai cuce gli abiti e conforta gli animi, conosce i sortilegi e le fatture, ma quando è necessario è pronta a entrare nelle case per portare una morte pietosa. Il suo è il gesto amorevole e finale dell'accabadora, l'ultima madre.

La Sardegna degli anni Cinquanta è un mondo antico sull'orlo del precipizio, ha le sue regole e i suoi divieti, una lingua atavica e taciti patti condivisi. La comunità è come un organismo, conosce le proprie esigenze per istinto e senza troppe parole sa come affrontarle. Sa come unire due solitudini, sa quali vincoli non si possono violare, sa dare una fine a chi la cerca.

Michela Murgia, con una lingua scabra e poetica insieme, usa tutta la forza della letteratura per affrontare un tema così complesso senza semplificarlo. E trova le parole per interrogare il nostro mondo mentre racconta di quell'universo lontano e del suo equilibrio segreto e sostanziale, dove le domande avevano risposte chiare come le tessere di un abbecedario, l'alfabeto elementare di «quando gli oggetti e il loro nome erano misteri non ancora separati dalla violenza sottile dell'analisi logica».



 
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In un paesino inventato dell’entroterra sardo negli anni cinquanta del ‘900 vive Maria. 

Ultima nata di quattro femmine viene vista quasi come un peso dalla madre che, rimasta vedova prima della nascita di Maria, vive di stenti e rinunce. 

Tzia Bonaria, una sarta del paese, nota questa difficoltà ed essendo ormai vecchia e sola decide di adottare in forma consensuale Maria come “Fill’e anima” (dal sardo testualmente “figlio dell’anima”). Questi affidamenti tra famiglie era una pratica molto diffusa nei paesi della Sardegna.


“Fillus de anima. È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai.”


Maria viene cresciuta come una figlia da Tzia Bonaria che, non avendo avuto figli e avendo una posizione agiata non le fa mancare niente. Con questo “scambio” Bonaria si prenderà cura di Maria, allevandola come sua figlia, istruendola e iniziandola alla vita e Maria a suo tempo dovrà prendersi cura di lei. 

Maria però ignora la vera identità della donna che in tutto il paese è conosciuta e per questo è rispettata e temuta al tempo stesso per quello che fa. Infatti Tzia Bonaria oltre a fare la sarta del paese è l’Accabadora (dal sardo “Colei che finisce”)

L’accabadora è una figura non storicamente comprovata di una donna sempre vestita di nero che si incarica di portare la morte, per pietà umana, alle persone con malattie terminali o sofferenza atroci chiamata dalle famiglie o dal malato se cosciente per porre fine alle sofferenze della malattia recandosi di notte presso il capezzale del malato e dopo aver provveduto ad eliminare tutti gli oggetti religiosi presenti nella stanza o indossati dall'infermo, con un martello in legno di ulivo lo colpiva in alcuni punti precisi del capo procurandone la morte, oppure lo strangolava o ancora lo soffocava con un cuscino. Si trattava di un atto legittimato dalla comunità e di fatto non impedito dalle autorità civili e religiose.

Qunado Maria ormai cresciuta viene a conoscenza di ciò che Tzia Bonaria fa collegando le varie volte che, da bambina nel cuore della notte, l’ha vista uscire vestita di nero chiamata dalle famiglie del paese, non lo accetta e la respinge chiamandola omicida e allontanandosi di casa andando in continente a fare la babysitter inua famiglia benestante piemontese.

Ma le parole di Tzia Bonaria le torneranno come un tarlo in testa e le due donne si rincontreranno legate da un destino di vita e morte.


"Non dire mai: di quest'acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata"..."Quando verrà il momento, Maria, scoprirai cose di te che non conosci ancora"


In questo libro la Murgia ci presenta uno spaccato di vita della società sarda di quegli anni, dove la tradizione e la superstizione si intrecciano.

Ho trovato la narrazione molto scorrevole e fluida, adoro leggere delle tradizioni della mia terra nei libri che leggo quindi questo me li fa apprezzare ancora di più. 

Mi piace il modo che ha l’autrice di caratterizzare i personaggi, descrivendoli sin da subito con aggettivi che ci portano ad amarli o odiarli dalla prima parola. 

Gli ultimi capitoli mi sono leggermente piaciuti di meno. Dalla partenza di Maria per il continente sembra che il libro sia scritto in fretta senza la consueta caratterizzazione.

La parte che mi è piaciuta di più invece è i preparativi per il matrimonio della sorella, con le preparazioni dei dolci tipici e le tipiche tradizioni della festa.


“Sul grande tavolo centrale del soggiorno ci fosse il clima frenetico degli eventi irripetibili. In bella mostra stavano allineati tutti gli ingredienti necessari per gli amaretti, e in quella filiera profumata ciascun paio di mani, comprese quelle della futura sposa, aveva il suo preciso tempo di intervento. Da un lato stavano le mandorle dolci, sminuzzate con la mezzaluna fino a ridurle a un niente, custodite dentro un ampio bacile di terracotta smaltata, pronte per essere mischiate alla farina e alle uova in un biscotto che sarebbe finito nel forno con una mandorla o mezza ciliegia candita piantata al centro”.


Un tema importante che qui viene trattato attraverso la figura dell’ “Accabadora” è quello dell’eutanasia. 


Consiglio questa lettura dal linguaggio schietto ed affascinante a tutti quelli che vogliono scoprire qualcosa di più su la tradizione sarda ma non solo. Un piccolo gioiellino che vale la pena di leggere!


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