Titolo: Accabadora
Autore: Michela Murgia
Editore: Einaudi
Genere: Narrativa contemporanea
Maria e Tzia Bonaria vivono come madre e figlia, ma la loro intesa ha il valore speciale delle cose che si sono scelte. La vecchia sarta ha visto Maria rubacchiare in un negozio, e siccome nessuno la guardava ha pensato di prenderla con sé, perché «le colpe, come le persone, iniziano a esistere se qualcuno se ne accorge». E adesso avrà molto da insegnare a quella bambina cocciuta e sola: come cucire le asole, come armarsi per le guerre che l'aspettano, come imparare l'umiltà di accogliere sia la vita sia la morte.
D'altra parte, «non c'è nessun vivo che arrivi al suo giorno senza aver avuto padri e madri a ogni angolo di strada».
Perché Maria sia finita a vivere in casa di Bonaria Urrai, è un mistero che a Soreni si fa fatica a comprendere. La vecchia e la bambina camminano per le strade del paese seguite da uno strascico di commenti malevoli, eppure è così semplice: Tzia Bonaria ha preso Maria con sé, la farà crescere e ne farà la sua erede, chiedendole in cambio la presenza e la cura per quando sarà lei ad averne bisogno.
Quarta figlia femmina di madre vedova, Maria è abituata a pensarsi, lei per prima, come «l'ultima». Per questo non finiscono di sorprenderla il rispetto e le attenzioni della vecchia sarta del paese, che le ha offerto una casa e un futuro, ma soprattutto la lascia vivere e non sembra desiderare niente al posto suo. «Tutt'a un tratto era come se fosse stato sempre così, anima e fill'e anima, un modo meno colpevole di essere madre e figlia».
Eppure c'è qualcosa in questa vecchia vestita di nero e nei suoi silenzi lunghi, c'è un'aura misteriosa che l'accompagna, insieme a quell'ombra di spavento che accende negli occhi di chi la incontra. Ci sono uscite notturne che Maria intercetta ma non capisce, e una sapienza quasi millenaria riguardo alle cose della vita e della morte.
Quello che tutti sanno e che Maria non immagina, è che Tzia Bonaria Urrai cuce gli abiti e conforta gli animi, conosce i sortilegi e le fatture, ma quando è necessario è pronta a entrare nelle case per portare una morte pietosa. Il suo è il gesto amorevole e finale dell'accabadora, l'ultima madre.
La Sardegna degli anni Cinquanta è un mondo antico sull'orlo del precipizio, ha le sue regole e i suoi divieti, una lingua atavica e taciti patti condivisi. La comunità è come un organismo, conosce le proprie esigenze per istinto e senza troppe parole sa come affrontarle. Sa come unire due solitudini, sa quali vincoli non si possono violare, sa dare una fine a chi la cerca.
Michela Murgia, con una lingua scabra e poetica insieme, usa tutta la forza della letteratura per affrontare un tema così complesso senza semplificarlo. E trova le parole per interrogare il nostro mondo mentre racconta di quell'universo lontano e del suo equilibrio segreto e sostanziale, dove le domande avevano risposte chiare come le tessere di un abbecedario, l'alfabeto elementare di «quando gli oggetti e il loro nome erano misteri non ancora separati dalla violenza sottile dell'analisi logica».
In un paesino inventato dell’entroterra sardo negli anni cinquanta del ‘900 vive Maria.
Ultima nata di quattro femmine viene vista quasi come un peso dalla madre che, rimasta vedova prima della nascita di Maria, vive di stenti e rinunce.
Tzia Bonaria, una sarta del paese, nota questa difficoltà ed essendo ormai vecchia e sola decide di adottare in forma consensuale Maria come “Fill’e anima” (dal sardo testualmente “figlio dell’anima”). Questi affidamenti tra famiglie era una pratica molto diffusa nei paesi della Sardegna.
“Fillus de anima. È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai.”
Maria viene cresciuta come una figlia da Tzia Bonaria che, non avendo avuto figli e avendo una posizione agiata non le fa mancare niente. Con questo “scambio” Bonaria si prenderà cura di Maria, allevandola come sua figlia, istruendola e iniziandola alla vita e Maria a suo tempo dovrà prendersi cura di lei.
Maria però ignora la vera identità della donna che in tutto il paese è conosciuta e per questo è rispettata e temuta al tempo stesso per quello che fa. Infatti Tzia Bonaria oltre a fare la sarta del paese è l’Accabadora (dal sardo “Colei che finisce”)
L’accabadora è una figura non storicamente comprovata di una donna sempre vestita di nero che si incarica di portare la morte, per pietà umana, alle persone con malattie terminali o sofferenza atroci chiamata dalle famiglie o dal malato se cosciente per porre fine alle sofferenze della malattia recandosi di notte presso il capezzale del malato e dopo aver provveduto ad eliminare tutti gli oggetti religiosi presenti nella stanza o indossati dall'infermo, con un martello in legno di ulivo lo colpiva in alcuni punti precisi del capo procurandone la morte, oppure lo strangolava o ancora lo soffocava con un cuscino. Si trattava di un atto legittimato dalla comunità e di fatto non impedito dalle autorità civili e religiose.
Qunado Maria ormai cresciuta viene a conoscenza di ciò che Tzia Bonaria fa collegando le varie volte che, da bambina nel cuore della notte, l’ha vista uscire vestita di nero chiamata dalle famiglie del paese, non lo accetta e la respinge chiamandola omicida e allontanandosi di casa andando in continente a fare la babysitter inua famiglia benestante piemontese.
Ma le parole di Tzia Bonaria le torneranno come un tarlo in testa e le due donne si rincontreranno legate da un destino di vita e morte.
"Non dire mai: di quest'acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata"..."Quando verrà il momento, Maria, scoprirai cose di te che non conosci ancora"
In questo libro la Murgia ci presenta uno spaccato di vita della società sarda di quegli anni, dove la tradizione e la superstizione si intrecciano.
Ho trovato la narrazione molto scorrevole e fluida, adoro leggere delle tradizioni della mia terra nei libri che leggo quindi questo me li fa apprezzare ancora di più.
Mi piace il modo che ha l’autrice di caratterizzare i personaggi, descrivendoli sin da subito con aggettivi che ci portano ad amarli o odiarli dalla prima parola.
Gli ultimi capitoli mi sono leggermente piaciuti di meno. Dalla partenza di Maria per il continente sembra che il libro sia scritto in fretta senza la consueta caratterizzazione.
La parte che mi è piaciuta di più invece è i preparativi per il matrimonio della sorella, con le preparazioni dei dolci tipici e le tipiche tradizioni della festa.
“Sul grande tavolo centrale del soggiorno ci fosse il clima frenetico degli eventi irripetibili. In bella mostra stavano allineati tutti gli ingredienti necessari per gli amaretti, e in quella filiera profumata ciascun paio di mani, comprese quelle della futura sposa, aveva il suo preciso tempo di intervento. Da un lato stavano le mandorle dolci, sminuzzate con la mezzaluna fino a ridurle a un niente, custodite dentro un ampio bacile di terracotta smaltata, pronte per essere mischiate alla farina e alle uova in un biscotto che sarebbe finito nel forno con una mandorla o mezza ciliegia candita piantata al centro”.
Un tema importante che qui viene trattato attraverso la figura dell’ “Accabadora” è quello dell’eutanasia.
Consiglio questa lettura dal linguaggio schietto ed affascinante a tutti quelli che vogliono scoprire qualcosa di più su la tradizione sarda ma non solo. Un piccolo gioiellino che vale la pena di leggere!
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